Laudate et benedicete lo mio Signore per
sorella caritate et ringraziate et servite Lui cum grande humiltate (Da
Francesco Forgione). Così scrisse al primo comitato per la realizzazione della
Casa Sollievo della Sofferenza a Monterotondo il 9 gennaio 1940. [Se lo
desideri, leggi Signore e Lui come Cielo, Buddha, Tao, Cuore,
Amore, Essenza. N.d.A].
A leggere e ad
ascoltare parole simili, tutti lacrimosi e concordi e solidali nel provare pena
e compassione e carità verso gli infermi e i sofferenti. Almeno col pensiero e
almeno mentre leggiamo. Poi usciamo in auto, corriamo come se ci stessimo
facendo la pipì addosso, sorpassiamo con la doppia riga bianca, non usiamo le
frecce e per finire clacsoniamo a quelli troppo lenti, inveiamo e, ingastriti,
gesticoliamo minacciosi.
Siamo insofferenti, siamo arrabbiati e stanchi, siamo
troppo nervosi ed egocentrici, siamo irosi e litigiosi come molle compresse: la
realtà non è contro di noi, ma ci cerchiamo appositamente il motivo e
l’occasione per “scaricare” tutta la violenza compressa che spinge da dentro
come spumante in una bottiglia agitata. Se poi non riusciamo a sfogare la
carica interna finiamo facilmente in depressione e con l’acidità di stomaco
(influenza di stagione e allergie a seguire). Perché non ci accorgiamo di cosa
ci accade? Perché non riusciamo a fermarci e a guardarci?
Perché ci facciamo
sballottare fra estremi di ira e di apatia ai limiti del patologico senza la
capacità di vedere altro se non le cose intorno e mai “noi”? Perché abbiamo
bisogno di programmare una vacanza con un anno di anticipo? Viviamo in funzione
di un periodo di ferie, i più fortunati pianificano ben tre periodi l’anno. Sembra
che accettiamo questa realtà “impazzita” solamente in vista delle vacanze di
Natale, del ponte di fine anno, dell’agognato ponte del primo maggio. Ma questa
non è vita! Questo non è vivere!
Questo è un inferno, questa è cecità, è
infermità, questa è sofferenza! Quando leggiamo le parole “pena, compassione e carità verso i sofferenti e gli infermi”, a
cosa pensiamo? Agli storpi? Ai mutilati di guerra? Ai febbricitanti bimbi
malnutriti del Sudan? A letti d’ospedale e persone ingessate? Ecco, questa è la
vera cecità! Questa è la vera infermità! E proprio da questa nostra deviazione
viene la sofferenza che ci affligge. Siamo noi gli infermi, noi i
mutilati e gli storpi, noi i ciechi bisognosi d’aiuto, sempre noi ad aver
bisogno di compassione e di una carezza.
Riusciamo a vedere questo? Riusciamo a
fermare un attimo lo strapotere del nostro ego? Possiamo per un solo minuto
smettere di blaterare con la mente e provare un filo di umiltà verso noi
stessi? Cosa crediamo che sia la Carità? Dare una moneta al lavavetri? No!
Carità è un istante di vera umiltà in cui riconosci la tua infermità e
riconosci la medesima condizione nel tuo prossimo. L’accetti e comprendi
profondamente che puoi fare qualcosa di vero e di autentico per rispetto di te
stesso, della tua vita, della vita dei tuoi cari. Carità non è un denario, ma
un profondo atto d’amore verso te stesso, è cominciare a prendersi cura di un infermo.
Oggi.
02/giu/2018 Claudio Panicali
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